XXV.

Carlo Goldoni

1. La vita

Il Goldoni dette (con un gusto dell’autobiografia che ritroveremo, tanto diversamente intonato, anche nell’Alfieri) un ritratto di se stesso, una spiegata ricostruzione della sua vita nei Mémoires, scritti nella vecchiaia (fra 1783 e 1784 e pubblicati nel 1787), e ancora pieni di quella alacrità e di quel fiducioso ottimismo vitale che egli stesso riconosceva nella propria natura ed esprimeva in pagine incantevoli per brio ironico e comico, per finezza di analisi e per lucida agilità narrativa. In quell’opera che è certo il capolavoro piú vero dello scrittore nella sua ultima fase parigina, il Goldoni mirò soprattutto ad unire indissolubilmente la sua vicenda vitale e la storia della sua vocazione e missione teatrale, dispiegata nell’enorme numero delle sue opere comiche e saldamente legata alle esperienze dell’uomo e dello scrittore nel “mondo” e nel “teatro”, termini fermi della sua visione vitale e artistica.

Ed è alla luce di quella narrazione e indagine autobiografica che sostanzialmente si può delineare la vita di questo grande scrittore, la cui poesia non nasce tanto da una concentrazione profonda, quanto da un attrito costante, alacre e fiducioso, con le sue incessanti esperienze del “mondo” e del “teatro”, entro la vita socievole, entro il calore fertile e lieto della esperienza degli uomini e della loro realtà, intensamente amata e acutamente osservata e interpretata nella sua poesia comica.

Carlo Goldoni nacque a Venezia, il 25 febbraio 1707 da Giulio e da Margherita Salvioni, in una famiglia decaduta e le cui difficili condizioni economiche mal poterono essere migliorate dall’attività avventurosa e mutevole del padre, dedicatosi tardi alla professione di medico esercitandola in varie città e paesi dell’Italia settentrionale e centrale, fra cui Perugia, dove il piccolo Carlo compí i primi studi e le prime esperienze del teatro, leggendo avidamente opere comiche e recitando in un teatrino privato nella Sorellina di Don Pilone del Gigli.

Furono proprio la passione per il teatro e la nostalgia della madre, ritornata da tempo nel Veneto, che spinsero il ragazzo a fuggire da Rimini (dove il padre lo aveva messo a studiare l’insopportabile filosofia scolastica presso i domenicani) in barca, nel 1721, con un’ospitale compagnia di comici che lo condusse a Chioggia, dove il padre perdonò la sua scappata e lo indirizzò agli studi di legge ottenendogli un posto nel collegio Ghisleri di Pavia. Ma anche a Pavia la vocazione letteraria-teatrale, alimentata da sempre piú copiose letture di opere comiche, si espresse in una lunga satira-farsa contro le ragazze pavesi, provocando la sua espulsione dal collegio e da Pavia e riportando l’adolescente nel Veneto, dove egli intrecciò la fiacca prosecuzione degli studi giuridici con saltuarie prestazioni di attore dilettante e di scrittore, finché fu costretto dalla morte del padre, nel 1731, e dalle difficoltà economiche della famiglia a laurearsi e ad esercitare la professione di avvocato.

Anche questa attività piú lucrosa (e a cui il Goldoni non mancò di associare la sua prediletta arte teatrale) venne presto interrotta da una complicata vicenda amorosa che costrinse il poeta a fuggire a Milano, nel ’32, e a divenirvi segretario dell’ambasciatore di Venezia per poi essere licenziato in seguito ad un aspro dissenso. Di nuovo, entro un fitto ritmo di avventure e di casi, di squilibri e riequilibri della sua mobile fortuna, il Goldoni passa per varie città dell’Italia settentrionale, finché l’incontro, nel ’34, a Verona, con il capocomico Giuseppe Imer decise piú chiaramente del suo avvenire di scrittore teatrale, mentre l’incontro, a Genova, nel ’36, con Nicoletta Conio, presto divenuta sua sposa e compagna fedele fino alla morte, venne a portare nella sua vita avventurosa un elemento di maggiore regolarità e un freno alle tendenze piú rovinose del Goldoni: il giuoco, la galanteria, l’eccessiva prodigalità.

Ritornato con la moglie a Venezia, vi rimase fino al ’43, intensificando la sua attività di scrittore comico al servizio dell’Imer e poi del Grimani nei teatri di San Samuele e di San Giovanni Grisostomo, consolidandovi quel programma di “riforma” del teatro comico che avremo poi modo di illustrare seguendo lo sviluppo del suo esercizio teatrale che già nel ’43, appunto, metteva capo ad una commedia, La donna di garbo, interamente scritta, diversamente da precedenti prove in cui il riformatore teatrale era passato dalla composizione di canovacci per commedie “improvvise” a commedie in parte scritte e in parte solo delineate e lasciate all’inventività degli attori.

Altre complicate peripezie e occasioni, derivate dalla difficile situazione finanziaria, vennero di nuovo a movimentare la vita del poeta e della sua compagna, sorpresi dalle vicende turbinose della guerra di successione austriaca mentre girovagavano per l’Emilia e per la Romagna con varie compagnie di comici, ridotti nella piú squallida miseria e poi improvvisamente salvati da altre propizie occasioni, finché trovarono un soggiorno lungo e lieto in Toscana, a Pisa. E qui il Goldoni, accolto generosamente da gentiluomini amanti della letteratura a causa di una sua brillante improvvisazione poetica nella colonia arcadica di quella città, passò tre anni e mezzo (dall’autunno del ’44 alla Pasqua del ’48) riprendendo con successo l’attività forense e insieme quella comica, alla cui ripresa poté contribuire un allargamento di esperienze letterarie, linguistiche e culturali offertogli dalla sua vita nell’ambiente colto e socievole della dotta città toscana.

Ingaggiato come poeta comico dalla compagnia del Medebach, egli ritornò ancora a Venezia dedicandosi interamente, nel teatro di S. Angelo, alla sua attività piú congeniale e impegnandosi in quella lotta di affermazione e difesa del suo sistema teatrale (memorabile in tal senso l’impegno mantenuto con il pubblico di fornire in un anno, fra il 1752 e il 1753, ben sedici commedie nuove) che continuò poi – passato al servizio dei fratelli Vendramin, proprietari del teatro San Luca – con vigorosa e fiduciosa energia, malgrado la gara difficile impostagli dalla concorrenza e dall’inimicizia del Chiari e poi di Carlo Gozzi e la necessità di assecondare i nuovi gusti del pubblico veneziano e italiano per forme teatrali avventurose, esotiche, romanzesche. Dopo soggiorni e recite delle sue nuove opere a Bologna, a Parma, a Roma (dove soggiornò due anni, nel ’58-59), il grande poeta ritornò per l’ultima volta nella sua diletta città natale e nell’attività di tre anni (dal ’59 al ’62) raggiunse la sua piena maturità artistica e scrisse i suoi piú alti capolavori in dialetto: dai Rusteghi alle Baruffe chiozzotte.

Mentre cosí la sua fama diveniva, piú che nazionale, europea e provocava l’invito del teatro italiano di Parigi ad un impegno biennale con onorevole compenso, la lotta insistente dei suoi nemici a Venezia e il successo popolare riportato dalle Fiabe drammatiche di Carlo Gozzi (che insieme denunciava lo spirito di “insubordinazione” e di sovversione sociale delle piú popolari commedie goldoniane) rendevano piú allettante quell’invito che insieme attraeva il poeta per la possibilità di portare il suo tipo di teatro alla conquista della maggiore capitale dell’Europa continentale.

Cosí – non senza una certa amarezza, superata però dallo spirito di avventura e di fiducia in nuove fortunate esperienze – egli partí nell’aprile per Parigi dove rimase sino alla morte.

Ma la vita parigina non fu priva di difficoltà, ché se il Goldoni trovò amicizie e ammirazione nei rappresentanti piú alti della cultura illuministica francese, la direzione del teatro italiano risultò assai piú difficile del previsto: attori impreparati, diffidenti di fronte alla “riforma” goldoniana, pubblico fedele alle vecchie commedie dell’arte come vero prodotto del teatro italiano. Sicché il poeta ormai anziano dovè, con la sua instancabile pazienza e attiva fiducia, ricominciare come daccapo l’opera della sua riforma: dalla composizione di semplici “canovacci” a commedie scritte, ma con la presenza delle maschere, per giungere infine alle commedie di “carattere” scritte in francese, quando già l’impegno con il teatro italiano era finito e il Goldoni dovè ricorrere, per guadagnarsi la vita, alla protezione della corte, divenendo maestro di italiano delle principesse reali.

Infine, lasciata la corte di Versailles, dové completare la pensione concessagli dal re Luigi XVI con imprese editoriali e traduzioni. Eppure le difficoltà non tolsero al Goldoni la sua serena tranquillità, il suo godimento della fervida vita cittadina di Parigi, il piacere con cui attese alla stesura dei suoi Mémoires. E quel «buon vecchietto» (come lo chiamò l’Alfieri che lo aveva visitato piú volte) apparve ai suoi amici ottimista e forte, anche quando nel ’92 gli fu tolta dalla Convenzione la pensione reale e fu colto da una grave malattia, che lo condusse a morte il 6 febbraio 1793, un giorno prima che Joseph Marie Chénier ottenesse la restituzione della sua pensione come ben dovuta ad uno scrittore che con la sua opera aveva pur contribuito alla causa della libertà e della rivoluzione.

2. Misura umana e posizione storica e artistica del Goldoni

In che senso può accettarsi quest’ultima definizione della sua opera nella perorazione a suo favore dello scrittore francese? Non certo nel senso di un’opera di propaganda prerivoluzionaria chiara e consapevole, ché il Goldoni non ebbe una vera prospettiva politica e un impegno rivoluzionario politico e sociale.

Ma certo nella sua partecipazione sincera a motivi medi e diffusi della civiltà illuministica (il rispetto della dignità umana anche nelle condizioni sociali piú misere e spregiate, la viva simpatia per le schiette virtú popolari, la netta antipatia per ogni sopraffazione e prepotenza, il senso di un cosmopolitismo che supera i pregiudizi locali e nazionali, la satira di una nobiltà frivola, oziosa e prepotente specie quando priva di ogni vera funzione sociale) il Goldoni contribuí indubbiamente a una diffusione delle nuove idealità civili con la sua opera comica acutamente attenta alle connotazioni sociali dei vari tipi umani rappresentati, aperta gioiosamente ad un concreto ampliamento del progresso civile e della libertà, alla crescente valutazione della laboriosità onesta e saggia che associa popolani dignitosi e schietti, borghesi attivi e non avidamente egoistici, nobili rinuncianti ai loro fastosi e arroganti privilegi, e convertiti ad attività di lavoro e di utilità sociale.

Non rivoluzionario, non eversivo, e neppure preciso collaboratore ad una riforma statale concreta (quale fu invece il Parini nelle propizie condizioni della Lombardia sotto i governi illuminati e riformatori di Maria Teresa e di Giuseppe II), il Goldoni visse però, con candida e sicura persuasione (piú che con vero approfondimento ideologico), i motivi piú vasti della “civiltà dei lumi” e, ciò che piú conta, li espresse poeticamente nella sua opera attraverso la viva rappresentazione di ambienti e persone tanto piú amati quanto piú sinceramente aperti ad una saggezza socievole e altruistica, tanto piú ridicolizzati quanto piú stretti a vecchie convenzioni e a valori decaduti di prestigio insolente, di avidità malvagia, di pregiudizio arretrato e ingiusto. Né è certo da sottovalutare il coraggio fiducioso e tranquillo con cui il “borghese” Goldoni venne portando sulla scena quei popolani (e si pensi soprattutto alle Baruffe chiozzotte) istintivi, ma dignitosi e onesti, che una reazionaria tradizione teatrale e culturale riteneva indegni di rappresentazione o solo oggetto di satira e di raffigurazione ridicola della loro grossolana semplicità o del loro spropositato linguaggio.

Soprattutto nel Goldoni vive un’essenziale e fortissima simpatia per la vita e per la realtà umana nella sua forma associata, nella condizione di rapporti fra uomini, vivi in una città organizzata dagli uomini e per gli uomini, fuori ormai (malgrado la persistenza di una fede religiosa depurata di ogni dogmatismo e superstizione e convergente con un amore tanto piú forte) di ogni vera istanza di tipo trascendente e di ogni misticismo e spiritualismo metafisico e ultraterreno. Goldoni ama appassionatamente la vita nei suoi termini mondani e terreni, nella sua naturalezza e nella sua razionalità, nella sua lieta attività, nella sua fervida convivenza civile, senza perciò ridursi (secondo una vecchia immagine inaccettabile) ad un curioso osservatore sorridente e scettico: ché egli vive, con fervido e personale entusiasmo, le offerte della vita e della realtà, il piacere dell’incontro con gli altri uomini, con la loro ricchezza di risorse, di intelligenza, di vitalità, di schiettezza, con la loro varietà personale e ambientale, con le loro città organizzate per l’agio e l’utilità, per i rapporti commerciali e per la pittoresca letizia della loro intera attività.

Da tal punto di vista essenziali riprove potrebbero essere tratte sia dal suo epistolario sia, e piú, dai Mémoires, pieni di vivaci ritratti di uomini e di ambienti, di descrizioni di città (al centro di tutte l’amatissima Venezia), non tanto ammirate per i loro monumenti celebri quanto intensamente amate per la loro fervida animazione, per il fascino delle vie e delle piazze affollate, festose, piene di negozi, di traffici, di caffè e teatri, che contribuiscono alla quotidiana letizia e benessere dei cittadini.

Angustia impoetica e prosaica di fronte alla sdegnosa delusione di un Alfieri per la realtà sempre inferiore alla sua prefigurazione immaginosa o al suo piacere per i “deserti” della Spagna e le distese ghiacciate e suggestive dei mari del Nord? In effetti si tratta di due diverse impostazioni personali e storiche, di due prospettive diverse e perciò non comparabili. Ché la realtà umana e cittadina nella sua piú minuta costituzione è, per Goldoni, fonte di interesse e fervore sentimentale e poetico. La realtà non delude Goldoni, e anzi quanto piú la osserva essa lo incanta e gli si rivela interessante e poetica: come gli avviene per le persone e le loro inesauribili risorse di varietà, di mobilità, di ricchezza di sentimenti e di aspetti ora attraenti ora ridicoli, ma sempre estremamente interessanti e stimolanti, sempre nuovi, inconfondibili e pure ugualmente umani e umanamente comprensibili.

E se il Goldoni ha, come abbiamo detto, un senso serio e persuaso delle qualità di onestà, di saggezza, di “onore” (ma non piú nell’accezione aristocratica e cavalleresca, bensí in quella borghese e illuministica di una sostanziale regola civile valida ad ogni livello sociale) del buon cittadino e dell’uomo “dabbene”, la sua simpatia cordiale e poetica si accende tanto piú quando a quelle qualità di fondo si accompagnano quelle affascinanti della intelligenza pronta, della disposizione all’avventura, del brio disinvolto e della sensibilità irrequieta. Donde la particolare attrazione per le figure femminili, nella loro grazia sensibile e attraente e nella loro sentimentalità piú aperta e fantasiosa. Donde l’attrazione stessa per gli attori comici, bonari ed estrosi, con le loro piccole manie e la loro vita spensierata e disordinata (si ricordi la descrizione incantevole della barca dei comici in cui il Goldoni fugge, ragazzo, da Rimini a Chioggia), e la forte unione degli stimoli che il Goldoni riconosce per lui essenziali di “mondo” e “teatro”, anche nella sua frequentazione sollecitante di attori e attrici.

Sicché anche nella sostanziale castigatezza del suo teatro e del suo linguaggio teatrale (che combatteva, in nome di una civiltà piú saggia e razionalistica, l’oscenità e l’ambiguità della commedia dell’arte) il sentimento e l’esperienza dell’amore, della galanteria e della stessa attrazione sensuale, filtrano poeticamente attraverso le remore della sua cauta prudenza, sia in certe scene dei Mémoires, sia nelle commedie dove (e si pensi agli Innamorati) la gamma del sentimento amoroso si svolge tra malizia sorridente, ansie e pene di gelosia, sentimentalità appassionata, ben al di là di un moralismo frigido e pedantesco.

Vivo alla poesia dell’avventura, nei limiti di “natura” e “ragione”, il Goldoni è ben vivo a tutto il calore dei rapporti fra le creature umane, a tutta la complessa ricchezza della “commedia umana”, alla sua sincera, genuina esperienza del “mondo”. E le sue figure piú vere non sono mai astratti figurini di virtú o mostruosi esempi di vizio, mai esseri privati di ogni umore e risentimento, e la loro ragionevolezza, la loro civile condotta è sempre insaporita di vivi fermenti della loro schietta natura umana.

3. La «riforma» e il noviziato teatrale del Goldoni

Questo schietto amore e questa personale partecipazione alla vita e al suo ritmo alacre e spontaneo (ma non disordinato e privo di un limite di concretezza e razionale e civile saggezza entro cui la fantasia collabora con le offerte della realtà) sono alla base della poesia goldoniana, a volte negata come troppo angusta e priva di quella “divina malinconia” che dal De Sanctis e dal Croce si disse assente nell’opera goldoniana, non avvertendosi come la poesia possa sorgere anche nella direzione dell’umana letizia, della simpatia poetica per la vita umana, in accordo con tutto un moto del tempo volto a cercar poesia appunto nella realtà umana e nelle sue inesauribili risorse e offerte.

Da questa disposizione intima di poetica simpatia per l’uomo, per la sua realtà, per il colloquio e il dialogo, per situazioni concrete e limitate (ma nel loro limite piene di interno movimento e di lieta energia vitale), da questo fondamentale gusto della società con le sue tensioni, i suoi contrasti, il suo progresso, nasce la direzione caratteristica del teatro comico del Goldoni e la forza della sua poetica del “vero” e del “naturale” e della sua stessa laboriosa “riforma”. E questa, mentre riprende motivi e presupposti della precedente riforma arcadica, si stacca fortemente da quella per il suo carattere tanto piú avanzato e maturo, per la sua ricerca realistica, per la sua forza di osservazione e rappresentazione psicologica e scenica, per il suo rifiuto di una eleganza puramente letteraria, per la densità dei nuovi valori illuministici che la animano, per la diversa capacità di recuperare nel testo scritto lo slancio e l’estro dell’“improvviso” della commedia dell’arte, da cui d’altra parte la riforma goldoniana ben si vuole distinguere per la coerenza dell’azione e la verità e varietà dei personaggi, mai fissi e stereotipati. Di tale novità e originalità il Goldoni prese precisa coscienza assai tardi (soprattutto, come vedremo, nella commedia del ’50 il Teatro comico, che è l’espressione teatrale piú completa delle sue esigenze di riforma), sicché l’immagine, nei Mémoires, di una riforma come programma prefissato sin dall’inizio e poi coerentemente sviluppato senza incertezze e con gradualismo sicuro e preveggente risulta in realtà piuttosto sovrapposta al vero, complicato svolgimento di un esercizio artistico spesso piú istintivo che interamente consapevole.

E tuttavia quella stessa immagine dei Mémoires non è tutta erronea quanto piú si privi della sua rigidezza eccessiva e si intenda la riforma goldoniana come direzione centrale dell’agire artistico goldoniano; come risultato sempre piú chiaro di esigenze programmatiche, di esperienza teatrale concreta, di ispirazione sempre piú portata al livello di matura consapevolezza.

Il Goldoni, infatti, partí da una piú dilettantesca vocazione ed esercitazione teatrale nel suo lungo noviziato, in cui il giovane scrittore provò assai ecletticamente i temi tragici ed eroici (con numerose tragedie e melodrammi “seri” praticamente falliti e velleitari), le forme del melodramma giocoso e quelle piú congeniali dell’“intermezzo giocoso” che (soprattutto fra il ’34 e il ’36) costituiscono l’esperienza piú valida sulla via della commedia goldoniana. In quei brevi componimenti in dialetto veneziano (come la Pelarina, il Gondoliere veneziano, La bottega del caffè, L’amante cabala) il Goldoni si avvicinava ad un materiale vivo nella vita contemporanea e nella sua personale esperienza, sbozzava figurine sapide di realtà e piccoli ambienti veneziani contemporanei ricavandone un primo, piú debole ritmo di comicità e di brio vitale, adiuvato dall’uso del dialetto nella sua grazia e spontaneità comica.

Solo nel ’38 – scoperta negli “intermezzi” la sua natura comica e abbandonati i tentativi tragici e melodrammatici seri (mentre a lungo seguiterà a comporre melodrammi giocosi come esperienza laterale rispetto alle commedie ed esercizio impegnativo di macchiette e caricature in azioni
brevi ed estrose) – il Goldoni si accinse ad una produzione di vere e proprie commedie, che vanno dal Momolo cortesan fino alla Donna di garbo, del ’43, e tentano il passaggio da una forma composita di canovaccio e di parti scritte alla commedia interamente scritta e imperniata su veri e propri “caratteri”, e cioè personaggi coerenti nel loro carattere e nell’azione che ne deriva in rapporto con altri personaggi e nel vivo tessuto di situazioni organiche e concrete, anche se questo primo percorso (utile anche ad educare i comici di mestiere, con cui era venuto intanto a collaborare, al difficile passaggio dalla recita improvvisa alla commedia scritta) conduce appunto alla Donna di garbo, piuttosto scialba quanto a vitalità generale dell’opera rispetto al piú brioso movimento e ritmo che si può cogliere nella piú tarda redazione interamente scritta del Momolo cortesan.

Perciò il Goldoni, che nel soggiorno pisano pur rafforzava il suo ideale di commedia di “carattere” organica e scritta, con una maggiore esperienza delle commedie della riforma arcadica (specie i toscani Gigli, Fagiuoli e Nelli) sentí il bisogno di riavviare la sua impresa artistica sia con il ritorno a scenari o canovacci, sia con quel Servitore di due padroni (1745) che associava di nuovo alcune parti scritte e il resto “a soggetto” (e cioè con un canovaccio lasciato al completamento improvviso degli attori) e che cercava come di enucleare e assorbire la forza piú viva ed essenziale della commedia dell’arte, cioè la sua forza di azione mimica e scenica, lo scatto e il movimento dell’attore sulla scena. E ciò difatti avviene in quell’opera, anche nella redazione interamente scritta piú tardi, in cui l’azione incessantemente mobile del protagonista, il servitore e “maschera” Truffaldino (che si impegna vittoriosamente nell’impresa di servire nello stesso tempo due padroni senza essere smascherato), anima tutta l’opera in un ritmo teatrale di impareggiabile abilità e freschezza.

Essa è un risultato notevolissimo, ma valido soprattutto in quella nuova fase di ricerca artistica-teatrale del Goldoni che attraverso quella, e la piú sicura coscienza dei suoi rapporti con la commedia dell’arte, ai fini della sua direzione piú vera e personale, muoverà di nuovo verso l’opera scritta e organica, non solo nel ritmo di azione teatrale, ma nella forza di “carattere” dei personaggi e della sua espressione poetica di ambienti vivi e contemporanei.

Cosí, nella stimolante collaborazione con attori come il Sacchi e il Darbes, il Goldoni, sempre piú poeta di teatro e nel teatro, sempre piú padrone di mezzi tecnici, si dà ad una copiosissima produzione di commedie (fra ’47 e ’50), in cui egli esperimenta diversi mezzi di arricchimento e approfondimento del suo mondo poetico-teatrale, cercando un’espressione piú intera di un ambiente cui saldamente si lega il personaggio centrale, ricreando, con delicata e semplice poesia (come nelle due commedie La putta onorata e La buona moglie), l’atmosfera reale e calda di una casa popolare veneziana, di una vita modesta e quotidiana, entro cui vibrano le modeste aspirazioni, le pene e le gioie di una giovane donna onesta e schietta, e cercando di superare cosí il puro giuoco scenico accordando il ritmo teatrale con la rappresentazione affettuosa e realistica del ritmo di una vita concreta nei suoi limiti particolari, di situazione sociale e psicologica. E se nelle due commedie ora citate non mancavano pericoli di patetismo e di moralismo piú scoperti, con la Famiglia dell’antiquario (1749) il Goldoni raggiunge uno dei primi risultati piú equilibrati e sicuri della sua lunga ricerca artistica, riuscendo a far vivere (con l’arricchimento di una linea secondaria piú caricaturale e apertamente comica: la mania “antiquaria” del conte Anselmo sfruttato sfacciatamente dal servo Brighella) l’accordo fra un ritmo scenico-teatrale sicuro ed elastico e lo svolgersi comico di una situazione precisa e limitata in una concreta prospettiva di vita e di costume contemporaneo: soprattutto l’urto non solo fra due generazioni e due elementi tipici di tensione in una vita familiare (suocera e nuora), ma fra le due condizioni sociali di queste, la donna matura, aristocratica, orgogliosa e superba, la giovane, figlia di un mercante, ricca e consapevole del valore della sua dote.

4. Dal «Teatro comico» alla «Locandiera»

È sulla base di questa lunga esperienza e di un risultato piú equilibrato e originale come la Famiglia dell’antiquario che il Goldoni nel 1750, accingendosi a realizzare il formidabile impegno preso con il pubblico veneziano di mettere in scena sedici commedie nuove nel giro di un anno, prese piú sicura ed energica coscienza della novità della sua commedia e della sua riforma e la espresse soprattutto in quella interessantissima commedia, programmatica ed esplicativa dei suoi principi e metodi di riforma, che è il Teatro comico e che tali princípi e metodi significativamente mette in bocca a personaggi in azione e in discussione fra di loro (e dunque teatralmente e con tanto maggiore efficacia che in uno scritto teorico ed espositivo), e attraverso le prove di una breve commedia con cui il capocomico Orazio (portavoce saggio e vivace delle idee del poeta) corregge ed educa i suoi attori, dopo aver messo in ridicolo il poetastro Lelio che era venuto ad offrire le sue prestazioni di poeta comico ancora legato alla commedia dell’arte con le sue forme di linguaggio secentesco iperbolico e spropositato e con le sue situazioni inverosimili, slegate e ridicole. Di fronte alle forme invecchiate e non piú adatte a un pubblico di gusto ormai piú esigente (e pur non discriminato socialmente) Orazio e gli stessi attori sempre piú conquistati e persuasi della bontà del nuovo tipo e stile della commedia riformata, fanno concretamente comprendere la bontà della commedia di “carattere” (e, meglio, di “caratteri” inseriti in un “ambiente”, gli uni e l’altro reali, moderni e naturali), la sua forza di organicità e di comicità non buffonesca e casuale, la sua capacità di riassorbire la vivacità delle parlate “improvvise” e del giuoco mimico e scenico della commedia dell’arte nel suo dialogo e nella sua azione coerente, nitida, ma vivacissima e irresistibile, nonché la trasformazione delle “maschere” fisse (Pantalone e Arlecchino, Florindo e Rosaura) che il Goldoni aveva, con lento lavoro, prima umanizzato e arricchito di precise connotazioni sociali e personali, per poi risolverle pienamente in personaggi vivi, contemporanei, varii, individuati nella loro irrepetibile e particolarissima realtà, seri nella loro sostanza umana e pur qualificati comicamente nelle loro manie, nei loro limiti di mentalità e di condizione sociale, inseriti nella rappresentazione di un mondo di rapporti sempre mobile e in crescente progresso di libertà e di ragionevolezza.

La poetica del “vero” e del “naturale”, dell’esperienza del “mondo” portati in “teatro”, la tensione a creare commedie vive e varie come la vita e insieme saldamente costruite e organizzate (e come tali bisognose di attori intelligenti ed educati a svolgere scenicamente le offerte precise del testo interamente scritto) trionfano nella dichiarazione “rappresentata” del Teatro comico e costituiscono ormai la salda base del successivo sviluppo del teatro goldoniano pur con inevitabili differenze fra commedie ispirate e felici e commedie piú frettolose e sciatte, fra periodi e fasi piú decise e coerenti in quello sviluppo di ulteriore maturazione, e periodi e fasi piú incerte e deviate dall’inevitabile peso della gara con altri autori e dalla necessità di venire incontro ai mutevoli gusti del pubblico in anni ricchi di nuovi tentativi e proposte teatrali.

Fecondo e sostanzialmente ben collegato alla piú sicura coscienza artistica del Goldoni e alla sua volontà ispirata di puntare soprattutto sui personaggi, e specie sul personaggio centrale che domina e organizza la situazione generale, è il periodo che corre fra le sedici commedie nuove del 1750-1751 e il 1753: dal Bugiardo alla Bottega del caffè, alla Figlia obbediente fino al capolavoro della Locandiera in cui culmina la simpatia poetica goldoniana per un personaggio centrale, dotato di una vitalità esuberante e complessa, di un’intelligenza pronta e inventiva, e insieme concretamente razionale e pratica nella costruzione della propria vita e nel rintuzzamento di passioni e ambizioni vive, ma fuorvianti e aliene da quel “badare al sodo” e all’“onore”, che sono essenziali nella prospettiva realistica e saggia (ma non angusta e impoetica) della morale civile e privata del Goldoni. Esempio sicuro di tale tipo di personaggio è appunto Mirandolina, la locandiera fiorentina, che nel dominio della propria sensibilità e del proprio fascino femminile, riesce a suscitare e a beffare la passione che ha per lei il cavaliere misogino e sprezzante e poi debolissimo e follemente innamorato (il cavaliere di Ripafratta), concedendo, alla fine, la sua mano al fedele e geloso domestico, Fabrizio, mentre con giuoco piú facile domina la piú fragile e vanitosa pretesa del ridicolo aristocratico spiantato (il conte di Forlipopoli), del ricco e troppo sicuro conte di Albafiorita o i piú futili e piú simpatici intrighi delle due attrici, presentatesi come grandi dame.

Tutta la commedia è articolata e svolta mirabilmente, e all’energia del personaggio centrale, alla sua lucidità ed elasticità, corrisponde una singolare chiarezza ed efficacia nella costruzione dell’azione, nella funzione dei personaggi minori, nell’atmosfera nitida e quotidiana della locanda (con i suoi locali e i suoi oggetti concreti e reali), nel linguaggio denso e capace di passare, senza eccessi, dal comico caricaturale al patetico sobrio ed efficace, alla scintillante grazia di un superiore sorriso.

5. Le deviazioni e le novità del periodo fra il 1753 e il 1758

Dopo il capolavoro della Locandiera il Goldoni sembra cedere ad un momento di stanchezza e di incertezza, scendendo sul terreno del suo rivale, il Chiari, con opere teatrali di tipo romanzesco e in versi, che segnano una sostanziale caduta della sua piú genuina ispirazione, anche se l’interesse per ambienti esotici e lontani (come nella trilogia persiana: La sposa persiana, Ircana in Julfa, Ircana in Ipahan, o come nella Peruviana) o la disposizione, ora piú languida e patetica (sulla via della nuova “commedia lacrimosa” che il Chiari aveva rilanciato in Italia attingendola dal teatro francese), ora piú minutamente caricaturale e satirica del mondo aristocratico con i suoi cicisbei e le sue damine sognanti e frivole, non mancarono di arricchire di nuove e piú delicate (se pure a volte troppo dolciastre) finezze psicologiche, di nuovi toni ironici o teneri, la gamma della tavolozza goldoniana, dei suoi colori e mezzi espressivi che saranno poi riassorbiti nella piú sobria finezza elastica di commedie come gli Innamorati o la trilogia della villeggiatura.

Non fu dunque un esercizio del tutto inutile e d’altra parte, pure in quegli anni, il grande poeta riuscí ad inserire in mezzo a questa produzione meno congeniale alcune commedie in dialetto veneziano con cui egli sembra prendersi una rivincita sulle sue concessioni ai gusti di moda, dando vita nel teatro (su di una via aperta con piú incertezza nei Pettegolezzi delle donne del ’51) alla rappresentazione del mondo veneziano popolare, abbozzata con minore sicurezza nelle Massere, e realizzata piú concretamente nel Campiello, del ’55, che imposta un tipo di commedia “corale” di originalissima novità. Nel Campiello infatti non dominano tanto i singoli personaggi in una individuazione approfondita (com’era stata soprattutto quella di Mirandolina nella Locandiera), quanto la vita intera e, ripeto, corale di un piccolo mondo popolare, raccolto nella scena limitata e variopinta della piazzetta (il campiello), su cui si aprono le modeste case dai cui balconi dialogano in un disegno folto di voci molteplici i semplici e schietti personaggi popolari che nella piazzetta si incontrano, altercano, si rappacificano, intorno alla breve e fragile azione (il matrimonio contrastato e poi felicemente attuato della fatua e incantevole Gasparina con un cavaliere forestiero casualmente capitato in quel piccolo mondo popolare), dando vita ad una specie di “movimento perpetuo” di voci e di personaggi scossi da brevi e piccole tempeste presto placate in un clima di fondamentale letizia vitale.

Certo nel Campiello si avverte (anche nell’uso dei versi piú aggraziati e leggiadri) qualcosa di piú pittoresco e dispersivo, una qualche eccessiva sommarietà nel disegno dei personaggi e della loro psicologia, e occorreranno ancora altre esperienze e un’ulteriore e suprema maturazione del mondo poetico goldoniano perché questa raggiunga – sulla via della commedia corale – la perfezione densa delle Baruffe chiozzotte.

6. Dagli «Innamorati» alla partenza da Venezia: le grandi commedie dell’ultimo periodo veneziano

Gli innamorati (scritti nel 1759, durante una sosta a Bologna nel viaggio di ritorno da Roma a Venezia) segnano come il preambolo del periodo piú alto e poeticamente conclusivo della poesia goldoniana, la quale in questa commedia trova una sua soluzione di particolare equilibrio e di particolare finezza, affidati alla linea salda e sinuosa dell’azione centrale (l’amore tormentato e inquieto dei due innamorati, Eugenia e Fulgenzio, fino alle loro nozze felici) e al suo intreccio sicuro con una linea secondaria apertamente comica: quella legata alle stranezze di Fabrizio e alle trovate comiche del suo servitore Succianespole. E insieme vi si rivela la matura capacità del poeta di approfondire e di rilevare, con una complessa e delicatissima analisi psicologica, il tema centrale dell’amore, scavato e rappresentato con un’arte sottile e ispirata, illuminata da un sorriso di superiore esperienza umana e da un calore di entusiasmo limpido e puro. Al centro è la indimenticabile Eugenia, con la sua natura complessa e poetica (con l’alternarsi di dispetto, capriccio e abbandoni e moti appassionati dell’animo) che si chiarisce e si definisce concretamente a mano a mano che la commedia procede e il turbamento, l’inquietudine sua e del piú assennato, ma non meno appassionato Fulgenzio, crescono, fra gelosie e incomprensioni che si alternano e si complicano in una sfasatura degli stati d’animo dei due innamorati (che fa per lo piú incontrare il rasserenamento dell’una con il turbamento dell’altro e viceversa) fino a certi alti momenti di mutua estasi e di reciproca affettuosa contemplazione sapientemente interrotti e riportati al livello del comico da improvvisi ingressi di altri personaggi e all’umoristico e tenero imbarazzo dei due innamorati.

Quanta cordiale simpatia per questo amore giovanile e bisognoso della pace e della sicurezza coniugale per perdere i suoi caratteri piú ombrosi e inquieti, quanta finezza e abilità teatrale nell’accordo e incontro del patetico e del comico, dell’appassionato e dell’ironico in questa mirabile commedia! Mentre la matura sapienza scenica del Goldoni si rivela in ogni particolare, e, ad esempio, nell’apertura del III atto: in cui la scena del pranzo burrascoso è seguita attraverso le parole dei servitori Tognino e Lisetta, che guardano dal buco della serratura ed espongono, attraverso il loro dialogo fra stupito e divertito, la situazione resa piú fantastica e suggestiva, pur nella sua realistica osservazione, da questa singolare dimensione di avvicinamento e allontanamento di una scena vista appunto attraverso il breve spiraglio della serratura.

In questa direzione patetico-comica, attenta insieme allo sviluppo delle azioni e dei sentimenti, il Goldoni volle ancora piú impegnativamente riprendere il tema dell’amore, delle sue inquietudini e delle sue tentazioni, sia nell’abilissimo, ma piú povero Curioso accidente, sia soprattutto nella trilogia della villeggiatura che svolge una situazione di fondo in tre commedie (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura), in cui si fa luce un aspetto dell’amore come sentimento passionale che sta per travolgere l’ onore” e ogni altro valore e norma morale e civile, e che par condurre il Goldoni verso il dramma sentimentale, vicino a certe nuove prospettive del dramma borghese europeo di secondo Settecento.

Ma se tale spinta drammatica – consolidata soprattutto nel personaggio centrale di Giacinta, promessa sposa di Leonardo e improvvisamente innamoratasi dell’insidioso Guglielmo – è assai interessante come una via nuova nella poesia del Goldoni, essa è poi (anche se non senza artistico disagio) arrestata e spezzata alla luce della piú vera natura dell’arte e della morale goldoniana, attraverso il trionfo del “buon senso” che, attraverso l’azione di un personaggio saggio e civile, impone a Leonardo la fine delle sue dissipatezze finanziarie e delle sue manie fastose e rovinose e a Giacinta la conclusione del matrimonio e l’allontanamento dell’oggetto della sua colpevole passione. Sicché la trilogia ha qualcosa come di poeticamente strozzato e incompiuto e la sua stessa complessità di rappresentazione di un vasto ambiente e di numerosi personaggi, di scene, situazioni, comportamenti, caratteri non riesce a comporsi nella organica circolarità e armonia che già potevano trovarsi negli Innamorati e che ancor piú profondamente e intimamente si realizzano nelle grandi commedie in dialetto veneziano di quegli anni (fra ’60 e ’62) supremi per l’arte goldoniana.

Nascono in questa fase – in cui ritmo teatrale e ritmo vitale si fondono in profondo ritmo poetico – le grandi commedie veneziane, la cui altezza poetico-teatrale non è tanto dovuta ad una specie di improvviso e miracoloso cambiamento da abilità a poesia (ché di poesia poteva già ben parlarsi assai prima per la Locandiera o per gli Innamorati), ma ad un approfondimento e ad una suprema maturazione di motivi e qualità già poeticamente attivi e operanti nel lungo esercizio artistico del Goldoni, e ora portati alla loro espressione piú armonica e fusa, alla loro espressione piú concreta e profonda. Né si può accogliere la spiegazione della genesi di questa piú alta poesia come legata ad una forma di contemplazione nostalgica (nell’ultimo ritorno alla propria amata città) del “piccolo mondo” veneziano e della propria lontana gioventú veneziana. Ché anzi la simpatia poetica del Goldoni per la realtà rappresentata si è fatta come piú alacre e profonda (non malinconica e nostalgica) e si avvantaggia di un piú maturo sentimento poetico e realistico nello scandaglio e rilievo di una situazione concreta e viva, colta nel suo piú recente sviluppo: urto di generazioni nelle loro particolari condizioni sociali, nel loro diverso bisogno di maggiore libertà (nei giovani) e di gelosa conservazione (nei vecchi), attrito fra caratteri diversi, con i loro pregi e difetti, nel chiuso della casa o nel limite di un quartiere o di un paese della periferia veneziana. E il poeta non vi si afferma come nostalgico lodatore del passato né come impaziente sostenitore delle ragioni dei giovani, ma come concreta voce poetica di un reciproco concorso, pur nell’urto e nell’attrito (che sprigiona elementi di comicità e di superiore sorriso affettuoso e ironico), verso una specie di ordine piú intimo, piú concorde e cordiale, piú indulgente, comprensivo, tollerante, piú ispirato ad una moralità socievole e ragionevole di profondo “buon senso” e di misurata apertura di progressiva libertà.

Di questa tensione rasserenata il Goldoni vive poeticamente il diagramma inquieto e comico, la reale, concreta allusione alla stessa generale condizione vitale nella sua omogenea e screziata sostanza umana, nella sua ricerca di un’ordinata e pacifica felicità e libertà, nel suo limite scosso, turbato e ricostituito poi ad un livello sempre piú socievole, civile e umano. Tale tensione sarà mirabilmente colta e rappresentata nelle tre commedie dialettali che la realizzano nel chiuso di una casa borghese veneziana, incentivo di intimità, ma piú di attrito fra i suoi componenti, in una misura che toglie ogni differenza fra commedia di “carattere” e di “ambiente”, poiché gli stessi caratteri si sviluppano e si precisano sempre piú nella sollecitazione dei loro rapporti ambientali e intimi, domestici.

Cosí nei Rusteghi e nel loro disegno perfetto ed elastico, nella loro azione semplice e modesta (un matrimonio combinato da due padri all’antica, all’insaputa dei futuri sposi, messo in pericolo dall’iniziativa della moglie di un altro “rustego” che ha portato il fidanzato in casa della fidanzata per farli conoscere prima delle nozze, e poi accomodato alla fine nella pace di tutti dalla intelligenza della stessa donna piú libera, ma non meno onesta e saggia), il poeta dà vita al contrasto fra il gruppo (internamente e abilmente differenziato) dei “rusteghi” con il loro saldo e geloso amore della casa, del lavoro, della sicurezza economica, del proprio potere domestico, e quello (anch’esso ben sfumato) delle donne e dei giovani, ugualmente non privo di piccoli e umani difetti, con la loro maggiore ansia di piú libera convivenza e felicità, che nei due giovanissimi fidanzati si colora di una loro incantevole e pur comica ingenuità.

La tensione si accumula e si scioglie in un tipo di azione che il Goldoni chiamò «tempesta in mezzo alla calma» e che ben rivela la natura e la poesia del tono comico goldoniano come limite di ogni tensione e contrasto, come rivelazione dell’umanità, mai perfetta e schematica, di concrete creature diversamente graduate, ma non prive mai interamente né di virtú né di difetti.

Né dicendo ciò si riduce la forza di vero poeta del Goldoni, che in quella medietà comica vive una sua autentica e seria simpatia umana e la cui “umana letizia” nasce dal pieno della realtà umana e non da una facile fantasticheria edonistica e idillica, da una coloritura “rosea” e mediocre delle cose e degli uomini. Accanto ai Rusteghi si può porre La casa nova, in cui il Goldoni nuovamente rappresenta il contrasto che si agita in seno ad una casa borghese impiantata con eccessivo lusso dalla giovane sposa, Cecilia, aspirante ad una vita di società fastosa e libera e dal marito Anzoletto, innamoratissimo e debole, e a cui si contrappone il ricco e burbero, ma generoso, zio Cristofolo, che salverà i due giovani sposi dalla rovina finanziaria, quando Cecilia, vanitosa, ma intelligente e onesta, si renderà conto dei suoi errori poco consapevoli, e saprà, d’altra parte, conquistare con il suo spirito lo zio “rustego”, ma bonario e non privo di una sua impacciata ingenuità. Anche in questa commedia vive poeticamente la profonda simpatia sorridente del Goldoni per un mondo di personaggi antieroici, comuni e umani, per la loro vita quotidiana fra piccole ansie e tempeste e soluzioni sagge e felici, per la stessa realtà comune e poetica della casa nova, quasi fredda e ostile quando, vuota, è invasa dai falegnami e dai tappezzieri e poi rivelantesi a poco a poco ai suoi abitanti, animata e riscaldata dalla loro presenza e dall’incantevole giuoco che essa permette con il quartiere di sopra e con la vita di pettegolezzi e di piccoli intrighi che vi si svolge. Poesia della vita e della realtà quotidiana fin nei particolari di cose e oggetti (ma, si badi bene, poesia, e non semplice interesse descrittivo e veristico) che sale ancora dalla terza delle commedie ricordate come piú tipiche della rappresentazione goldoniana della casa borghese e delle sue interne tensioni: quel Sior Todero brontolon, in cui il vecchio protagonista, avaro ed egoista fino all’ingenuità (e perciò non privo di una sua comica umanità), si dispone a dare in moglie la nipote Zanetta a Nicoletto, figlio del proprio fattore, per non sborsare una dote e per essere ancor meglio servito nella sua casa, provocando cosí l’indignazione della nuora, Marcolina, e l’azzardato ma riuscito intrigo di questa, che (malgrado l’inettitudine del buono e debole marito) riesce a far sposare Nicoletto con la sua serva Cecilia, a far riconoscere disonesto il fattore, a dare alla figlia un marito a lei piú adatto, con una conclusione che riporta la calma e, al solito, una calma cordiale e reale, con nuovi rapporti piú ragionevoli e affettuosi fra i vari componenti della famiglia. Ma, accanto alle tre commedie contraddistinte dal tema della famiglia borghese e dal disegno piú concluso dentro il limite della casa, il Goldoni riprese anche il disegno piú aperto e corale e la rappresentazione del mondo popolare, già cosí vivo nel Campiello, e ne ricavò la piú nuova e affascinante delle sue opere teatrali: le Baruffe chiozzotte.

Nel suo disegno piú aperto e corale questa commedia segna insieme la piú diretta e poetica rappresentazione del popolo minuto e della sua umanità e vitalità cosí fresca e schietta, “naturale” e “vera”, spontanea, capace di suscitare insieme tenerezza, rispetto e umorismo, còlta e fatta vivere nell’incantevole fusione del suo fondo di onestà e delle sue facili tentazioni di amor proprio, di gelosia e di rissa, nello spicco sorridente e affettuoso della sua istintiva socievolezza e della sua disposizione ad una vita quotidiana semplice e pur densa di pene e di gioie modeste, di pettegolezzi comici e di “baruffe” presto accese e presto placate. Non si tratta – si badi bene – di un generico ed enfatico elogio delle virtú popolari (ché l’intervento e lo sguardo fra affettuoso e distaccato del giovane burocrate giudiziario, Isidoro, ne misura anche i naturali e umani difetti, le ingenue furberie o credulità), ma, ripeto, di una rappresentazione poetica della loro vita intera, nel taglio perfetto di una piazzetta in riva al mare fra umili case di pescatori, nella luce calda e concreta di una realtà piena di offerte poetiche, nella densa pienezza di un piccolo mondo di cui il Goldoni ha voluto riprendere anche il particolare linguaggio (il dialetto di Chioggia) e persino le buffe deformazioni linguistiche di un personaggio frettoloso e impaziente anche nella sua parlata precipitosa e smozzicata. Lontanissimo dalla aggraziata pittura dei contadini e pastori arcadici o dalla satira aristocratica del mondo rusticale (che a lungo costituisce un filone della nostra letteratura dalla Nencia da Barberino in poi), cosí come da un entusiastico elogio retorico della virtú primitiva popolare, il Goldoni ha espresso nelle Baruffe tutta la sua poetica simpatia per uno strato sociale rappresentato in tutta la sua semplice e pur vera umanità comprovata, fuori di ogni schematismo, dai suoi stessi difetti come dalle sue candide e salde virtú.

Ne risulta un movimento poetico pieno di scatti e di slanci, di comiche e brevi vicende, nel giro perfetto di un’azione semplicissima e pur mai monotona e statica. Sull’apertura bellissima della commedia con le donne sedute davanti ai loro tomboli per fare merletti, nella piazzetta popolare attraversata dall’odore del vento marino, e con l’intreccio fitto delle loro brevi battute di dialogo intorno ai casi della loro umile vita (il tempo, il mare, il ritorno atteso dei loro uomini dalla pesca, il proprio lavoro), la commedia lentamente prepara, con l’intervento del galante Toffolo e l’ingenua civetteria di Lucietta, lo scoppio della baruffa fra le donne. Poi l’arrivo della tartana di padron Toni sembra riportare la pace, finché una nuova e piú accesa baruffa si accende fra gli uomini adirati contro il petulante Toffolo. Inutile inizialmente si rivela l’azione pacificatrice e ironicamente severa del cancelliere veneziano Isidoro che sfuma in una piú generale e violenta baruffa generale. Finché prevarrà la verità e la saggezza e l’azione si concluderà con le incantevoli scene di pacificazione e di nozze che placano gli ultimi sussulti della piccola tempesta con toni di letizia insaporita da brevi e limpidi toni patetici fra bruschi e teneri nel rifiuto delle futili gelosie e nella concordia felice dei due innamorati (Titta Nane e Lucietta) che sono stati al centro delle movimentate baruffe.

7. Il finale periodo francese

Con le Baruffe e le tre commedie prima ricordate, il Goldoni sembra aver esaurito la sua poesia piú intensa e certo la sua difficile attività a Parigi (dove l’inadeguatezza degli attori del teatro italiano e i gusti del pubblico legato ancora alla commedia dell’arte lo costrinsero a ritornare agli “scenari” o “canovacci”, all’impiego delle maschere e al piú forte uso di intrecci complicati e spettacolari) è inscritta in una generale curva di diminuzione della sua forza poetica, rivelata anche là dove il poeta cercò di riprendere la sua via piú congeniale della commedia interamente scritta o nelle piú tarde commedie scritte in francese nel ’71-72 (soprattutto Le bourru bienfaisant da lui poi tradotta in italiano, ma troppo puntata sul “carattere” centrale e priva di vero ritmo poetico) o in quella commedia del ’64, scritta a Parigi, ma per i teatri di Venezia, Il ventaglio, che troppo spesso è stata erroneamente considerata come uno dei capolavori goldoniani. Certo Il ventaglio, tutta imperniata sulle curiose vicende provocate da un ventaglio che suscita gelosie ed equivoci nel piccolo mondo di un paesino, fra i suoi popolari abitanti e i villeggianti borghesi e aristocratici, ha una sua impeccabile perfezione tecnica, una raffinata sicurezza di movimento scenico e di legame saldissimo fra scena e scena, fra battuta e battuta. Ma a tale perfezione di ricamo teatrale manca lo slancio intimo della poesia che il Goldoni aveva altre volte saputo ricavare dalla realtà rappresentata, manca quella animazione di personaggi e dei loro rapporti dal cui attrito il poeta traeva la sua letizia vitale, fra simpatia e sorriso.

Sicché, se in questa fase senile si vuol ritrovare il piú vivo spirito goldoniano, ci si dovrà piuttosto rivolgere al capolavoro autobiografico dei Mémoires, all’alacre fervore che il vecchio Goldoni vi recuperò narrando – con un’abilità e freschezza narrativa che tanto riprende dall’esperienza comica e tante scene e pagine inquadra in vere e proprie scene da commedia – la sua lunga e movimentata vicenda di “avventuriero onorato” e di uomo aperto alle offerte poetiche della realtà umana e al fascino di una gioia vitale, di cui era stato sincero e vero poeta nel suo teatro, ben inserito nella progressiva civiltà settecentesca e ben capace tuttora di colpirci e avvincerci per la sua storica e perenne modernità.